la strada verso una nuova accezione di varietà efficiente

di franco tesio e greta masserano

I metodi di coltivazione a basso input sono un tema su cui spesso si dibatte e per cui la maggior parte degli agricoltori mostra legittime perplessità dovute principalmente al basso livello produttivo finale che, soprattutto per le colture cerealicole, spesso non trova il riconoscimento qualitativo necessario affinché il consumatore sia disposto ad acquistare il prodotto trasformato ad un prezzo sufficientemente alto da giustificarne le rese inferiori. Questo è già un problema per chi riesce a trasformare il prodotto all’interno della propria azienda, ma è ancor più un ostacolo per le aziende che invece basano il proprio reddito soltanto sulla granella, il cui prezzo oscilla da un anno all’altro guidato dalle leggi di mercato.

MIGLIORAMENTO GENETICO PARTECIPATIVO - Uniformità di caratteristiche

Uniformità di caratteristiche

Nonostante gli Stati europei sottolineino spesso l’importanza della salvaguardia della biodiversità, la genetica resta indirizzata verso l’uniformità, paradossalmente, in un certo senso, considerando anche solo la grande variabilità climatica che può presentare un ambiente nel breve e nel lungo periodo.

Le leggi sui semi impediscono anche agli agricoltori di avere accesso a semi che non rispecchiano certe caratteristiche, favorendo il monopolio dell’industria sementiera e la monotonia del cibo all’interno della grande distribuzione, che deve rispecchiare i criteri di uniformità, stabilità e distinguibilità che ne permettono l’iscrizione ad un registro.

Al di là dell’opinione di ciascuno nei confronti di un sistema di produzione più sostenibile, permane una ristretta scelta di varietà adatte a sistemi colturali a basso input, poiché la ricerca continua a basarsi su un miglioramento genetico testato in situazioni ottimali da cui vengono selezionate ed iscritte in un registro varietà che mediamente, in qualsiasi contesto agronomico che includa irrigazione, concimi, fitofarmaci e meccanizzazione, portano a produzioni accettabili. Attraverso questo metodo, l’adattamento specifico delle varietà locali, sfruttato un tempo dagli agricoltori, è andato perdendosi a favore della selezione per adattamento ampio e la scomparsa delle varietà antiche, di cui hanno preso il posto le varietà nate a partire dalla Rivoluzione verde.

La selezione di varietà nuove ha iniziato ad avvalersi di tecniche molecolari che ne aumentano la precisione, ma spesso non l’efficienza, perché attribuita a varietà coltivate in contesti così favorevoli da non rispecchiare, spesso, quella che valuterebbe un agricoltore coltivandola nel suo campo.

E’ per questo che la valutazione di nuove varietà fatta nell’esatto luogo in cui la si vuole selezionare, arricchita dall’inclusione degli agricoltori, presenta notevoli vantaggi: questo avviene col metodo del miglioramento genetico partecipativo. Esso assomiglia al processo ciclico del miglioramento genetico convenzionale, con la differenza che gli agricoltori mettono a disposizione i loro terreni, vi seminano materiale genetico contenente molti genotipi derivati da incroci – di linee pure, cloni, popolazioni, ibridi e/o collezioni di germoplasma -o miscele varietali e partecipano al processo di selezione, insieme a genetisti e ricercatori, definendone i criteri in base alle loro esigenze e ai risultati ottenuti dalle analisi statistiche fatte attraverso l’elaborazione dei dati rilevati in campo.

Se i semi di parcelle diverse vengono mescolati dopo ogni trebbiatura e riseminati, allora creano la possibilità di dar luogo a sub-popolazioni che dopo circa 3 o 4 anni tendono ad assomigliare, per uniformità, ad una varietà. La popolazione evoluta insieme all’ambiente, contiene però molti genotipi differenti, che le permettono di continuare ad evolversi per adattarsi continuamente a possibili variazioni ambientali e rispondere ad eventuali avversità. Si può anche decidere di reintegrare la popolazione con nuovi genotipi quando l’uniformità si ritenga eccessiva. In questo modo, anche specie autogame come grano, riso e orzo possono riuscire a sfruttare la loro rara, ma pur sempre esistente, fecondazione incrociata, percentualmente maggiore in condizioni di stress ed evolversi in popolazioni via via più resistenti ed adatte al luogo di coltivazione.

Il requisito fondamentale affinché le popolazioni abbiano successo è che si parta da generazioni segreganti i cui parentali siano predisposti all’adattamento specifico del luogo di coltivazione in cui si ha intenzione di coltivare.

Dei vantaggi del miglioramento genetico partecipativo parla anche il Professor Salvatore Ceccarelli che, insieme alla moglie, porta avanti da più di vent’anni studi e ricerche in questo campo, sperimentandolo in diverse parti del mondo – tra cui Siria, Tunisia, Giordania e parecchi Stati africani – sostenendo che il problema fondamentale del miglioramento genetico odierno è l’ambiente in cui si fa la selezione, che spesso è molto differente da quello in cui si andrà successivamente a coltivare il materiale. Il risultato è che chi impiega la varietà selezionata, cerca di far assomigliare il più possibile l’ambiente che ha a disposizione a quello del campo sperimentale, dovendo sostenere costi notevoli senza magari ottenere la produzione cercata ed avendo talvolta livelli produttivi nettamente oscillanti nel tempo.

Il metodo partecipativo presenta comunque dei punti deboli: i contadini dipendono da una fonte esterna, di solito i ricercatori, per il flusso continuo di materiali genetici. Inoltre, l’industria di trasformazione necessita sovente di partite con caratteristiche uniformi per ottenere elevati standard qualitativi e ridurre gli scarti.

Questo modello di selezione varietale può essere innovativo anche in Europa?

Questo metodo di selezione ha preso piede nei Paesi in cui l’influenza dell’industria sementiera è meno sentita e dove la filiera è più breve, poiché le popolazioni non sono certificabili ovunque ed anche perché, in alcune zone, le caratteristiche ricercate in una varietà sono peculiari e difficili da reperire sul mercato maggioritario, ad esempio i cereali dal fusto lungo per chi non considera solo la granella, ma anche la paglia come fonte di reddito, come in molti paesi di Africa e Medio-Oriente. Il metodo richiede per altro una sinergia con i ricercatori disponibili a questo tipo di sperimentazione, che obbliga a viaggiare e ad arrivare a varietà utili, ma non registrabili. Inizia però ad esserci spazio e interesse anche da parte di alcune realtà più vicine al nostro modo di vivere. Nel 2010 la Commissione Europea ha finanziato fino al 2014 il progetto SOLIBAM sulla partecipazione, che ha permesso la mercificazione di popolazioni di cereali all’interno dell’UE, modificando il regolamento europeo fino al 2018, con lo scopo di studiare le modalità di commercializzazione di questi semi per individuare principi e regole di future normative in materia. Nel 2015, per altri quattro anni, è nato poi il nuovo progetto Diversitifood, basato sul presupposto di creare reti per i sistemi alimentari locali di alta qualità.

E in Italia?

Esistono casi di produttori italiani che, appassionandosi a tale metodo, si servono di vari canali di commercializzazione, come i mercati rionali, adottando il miglioramento genetico evolutivo per la produzione di diverse specie di cereali per l’ottenimento di farine, e aziende più ampie, come Floriddia vicino a Peccioli (PI), che coltiva grani antichi e li trasforma autonomamente. L’associazione senza fini di lucro Rete Semi Rurali, a cui aderiscono oltre 30 produttori che seminando e vendendo grani locali, ha come obiettivo quello di salvaguardare, nel loro piccolo, la biodiversità, offrendo merci curiose e salutari.

Le popolazioni e i miscugli non possono competere a livello quantitativo con le varietà utilizzate nel metodo convenzionale, consentendo produzioni mai superiori a 2 – 3 t/ha; non possono nemmeno rispondere alla richiesta qualitativa dei trasformatori che spesso si dichiarano costretti a comprare grano da fuori, più ricco in glutine e proteine, per garantire una pasta di eccellenza.

Offrono però il vantaggio di consentire produzioni resilienti, ovvero costanti nel tempo malgrado le avversità climatiche che si possono presentare, cambiando talvolta repentinamente da un anno ad un altro, ampliano la scelta di seme da utilizzare in agricoltura biologica, possiedono caratteristiche qualitative adatte al mercato del gluten-free o composizioni nutrizionali interessanti.